ZIN0 PENSIERO: LO SCRITTO NON CONCLUDE : PIRANDELLO, SCIASCIA E CALVINO Che cosa hanno in comune Pirandello, Sciascia e Calvino? Convergenze tematiche, calchi espressivi comuni, capacità inventive analoghe o semplicemente una mera e dolorosa casualità? Anche gli scritti di importanti scrittori possono “non concludersi”, se alla fine loro stessi non hanno la possibilità materiale di finire quello che è stato cominciato, di iniziare quello che è stato predisposto ed intuito attraverso la consultazione e l’esame di importanti documenti storici, o, infine, di essere costretti dall’imponderabile a interrompere la scrittura di un impegnativo testo da proporre in una prestigiosa università di livello mondiale. Il “non finito” è per sua stessa natura intrigante più del “finito”. In effetti, il “finito” rappresenta le intenzioni definitive dell’autore, la sintesi della sua elaborazione concettuale; non esistono alternative dichiarate, almeno fino a quando non se ne trovino, ma che, comunque, rimangono sempre sul piano della mera intenzionalità. Il “non finito”, al contrario, lascia lo spazio alle interpretazioni, alla possibilità che si possa prevedere una ricostruzione a posteriori o, comunque, rappresenta un definitivo ed inalterabile “non finito”. Differenti sono le fisionomie del “non finito” nei tre scrittori: Pirandello non conclude il terzo atto de “I giganti della montagna” per la morte sopraggiunta la mattina di quella turbolenta nottata durante la quale Pirandello lottò contro la malattia e contro il terzo atto del dramma “I giganti”. La mattina lo scrittore disse al figlio Stefano che aveva trovato la soluzione per il terzo atto e ne indicò le caratteristiche al figlio, che poi abbozzò la conclusione. “Non posso sapere se, all’ultimo, nella fantasia di mio Padre, che fu occupata da questi fantasmi durante tutta la penultima nottata della Sua vita, tanto che alla mattina mi disse che aveva dovuto sostenere la terribile fatica di comporre in mente tutto il terzo atto e che ora, avendo risolto ogni intoppo, sperava di poter riposare un poco, lieto d’altronde che appena guarito in pochissimi giorni avrebbe potuto trascrivere tutto ciò che aveva concepito in quelle ore.” (L. Pirandello, Maschere nude, vol. II, p. 1373). Il “non finito” di Sciascia ha una sua peculiarità. Il testo non conobbe una stesura da parte dello scrittore perché il metodo di lavoro di Sciascia in alcuni suoi testi comprende in primo luogo una fase di reperimento del materiale dal quale far germinare la sintesi letteraria. Ebbene, la fase di scrittura non ebbe luogo, tutto rimase solo nelle mente dello scrittore, peraltro molto provato dalla malattia. Il tema era di grande valore civile. Sciascia voleva con questo libro superare la contrapposizione fascismo/antifascismo e sostenere che, in fondo, un sentimento “eroico” o normale di umanità poteva e può ergersi come antidoto contro il fanatismo e la sopraffazione. Sciascia aveva raccolto tanto materiale su Telesio Interlandi, nativo di Chiaramonte Gulfi, esponente di spicco della cultura fascista, che aveva diretto importanti riviste come Quadrivio, Il Tevere. La sua ascesa toccò il culmine, quando Mussolini in persona lo nominò direttore della famigerata rivista La difesa della razza. Ebbene, nelle fasi finali della guerra Telesio Interlandi fu catturato dai partigiani, ma si trovò per caso o per sbaglio ad essere rilasciato. Rimase solo ed in balia di un destino avverso a Brescia, se fosse stato catturato una seconda volta. Bussò alla porta della abitazione dell’avv. Paroli, che, durante il processo, era stato nominato suo avvocato di ufficio. L’avv. Paroli, antifascista, lo custodì per otto mesi nella sua casa, rischiando del proprio. Italo Calvino rientra anche lui in questa categoria del “non finito” con le “Lezioni americane- Sei proposte per il prossimo millennio”. Il doppio titolo nasce da un duplice riferimento. “Sei proposte per il prossimo millennio” era il titolo previsto dallo stesso autore e riassume pienamente il senso principale del testo e la sua collocazione nell’ambito della riflessione diffusa sul senso del millennio prossimo venturo. La definizione “Lezioni americane” era stata coniata scherzosamente da Pietro Citati, grande scrittore poliedrico e affettuoso amico di Calvino, che più volte visitava lo scrittore e, appunto, chiedeva notizie di quelle che lui stesso chiamava le “lezioni americane”. Questa definizione piacque alla moglie dello scrittore, che la scelse come titolo dell’opera. Il “non finito” calviniano assume un aspetto differente rispetto agli altri due esempi. “Le lezioni americane”, un’opera apparentemente frammentata, ma sostanzialmente organica in rapporto alla sensibilità artistica e alla capacità creativa dello scrittore, essendo privata della sesta lezione, appare in parte priva della conclusione, se il titolo stesso della sesta lezione era “Consistency”, tradotta con l’ineffabile e irraggiungibile “coerenza”. Lo scrittore aveva intenzione di scriverla, una volta arrivato in America e di questa solo so che si sarebbe riferito a Barttleby di Herman Melville”. (Italo Calvino, “Lezioni americane”, Introduzione a cura di Esther Calvino, p. VI). . Già apparso su Facebook e La Sicilia del 21 gennaio u.s. Zino Pecoraro.
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