ZINOPENSIERO: Il compiacimento per il delitto: due donne assassine, Medea e Clitennestra.
Rileggere le tragedie greche comporta assistere ad una serie di delitti presenti o passati, di conflitti irrimediabili, di diatribe verbali, di scontri violenti senza possibilità di conciliazione.
Troppo forti e immodificabili sono le passioni, le tensioni raggiungono spesso un tono estremo: non esiste un compromesso, anzi spesso la inconciliabilità delle idee contrapposte può essere sciolta solo con l’appropriato e definitivo intervento di un deus ex machina, che dall’alto della sua autorevolezza impone una soluzione al conflitto.

I contendenti non possono fare a meno di accettare la soluzione proposta dal dio, proprio perché non hanno l’ardire di contrapporglisi.

Spesso le cause dei conflitti sono remote, affondano le loro radici nel passato: torti subiti, che devono essere vendicati e, a loro volta, determinano altre vendette in una sequenza seriale che non conosce la fine. Nelle opere dei tre grandi tragici greci emergono figure femminili dotate di grande forza comunicativa, sia che propendano per il male sia che vivano con dedizione il bene.

Antigone, Polissena, Deianira appartengono per delicatezza di sentimenti e per le scelte autolesionistiche, ma eroiche, al versante della positività dell’agire.

Al versante opposto appartengono, tra le tante altre, Medea e Clitennestra: una madre assassina dei propri figli; una moglie adultera, assassina del proprio marito.

Alla base dell’impressionante delitto di Medea esiste una forma esasperata di frustrazione da gelosia. Giasone non ha rispettato Medea, l’ha messa da parte ed ha preferito rivolgere la sua attenzione verso nuove e più fresche esperienze. “Non dovevi, / disprezzando il mio amore, farti beffa / di me, né darti ad una vita allegra / con la giovane sposa; né doveva / colui che t’aveva dato la figliuola, / il vecchio re, cacciarmi impunemente / dalla sua terra.

E adesso puoi chiamarmi / come ti aggrada, leonessa o Scilla / Tirrenia. Ti ho restituito i colpi!” (Euripide, Medea, p. 175). Medea uccide i figli e punisce Giasone, ma, nello stesso tempo, si macchia di un delitto terribile per una madre. “È necessario / dimenticar l’affetto che tu nutri / pei tuoi figli e scordare che tu li hai / dati alla luce … Almeno per qualche attimo … / Avrai tempo per piangere! perché, / o morti o vivi, t’erano molto cari … / ed io sono una donna così misera!” (Euripide, cit., p. 168).
Al povero Giasone, padre torturato e vilipeso, non resta altro che la rabbia imbelle: “Dopo aver dato la morte / ai miei figliuoli, mi vieti / di toccarli con le mie mani / e di seppellirne le spoglie! / Oh, non mi fossero mai nati! / così non li avrei visti esanimi / vittime del tuo furore!”. (Euripide, cit., p. 179).

Clitennestra attribuisce ad Agamennone, che ritorna a casa dopo ben dieci anni di assenza a causa della guerra di Troia, due colpe: il sacrificio della figlia Ifigenia e la presenza della concubina e sua concorrente, Cassandra.

Clitennestra vuole vendicarsi perché offesa da Agamennone come madre e come moglie.

Ma anche Clitennestra ha la sua evidente colpevolezza: la relazione adulterina con Egisto e la conquista di fatto del potere.

Il sacrificio di Ifigenia è rievocato dal Coro: “E il padre ingiunse ai serventi / dopo le rituali preci ai numi, / a guisa di capretta sull’altare, / entro il suo peplo ravvolta, / con tutto l’animo prona / di ghermirla, levandola in alto, / e nel bel viso soffocar le grida, / maledicenti alla reggia, / a forza con i taciti bavagli.” (Eschilo, Agamennone, p. 30).

La vendetta dell’adultera e assassina Clitennestra è coperta da un ipocrita velo di presunta giustizia: “Io non credo che codesta morte / sia indegna di lui / Non fu lui che lo scaltro delitto / in casa ospitò? / Al rampollo cresciuto da lui, la mia tanto rimpianta Ifigenia, / diè morte.

Or avendo sofferto / la pena, non si glorii nell’Hade, / poi ch’egli, morendo / di ferro, sue colpe ha scontato.” (Eschilo, cit., p. 87). Piena di enfasi omicida è la rievocazione dell’assassinio fatta da Clitennestra: “due volte lo percossi: / lasciò andare in due gemiti le membra. / Su di lui caduto allora assesto un terzo / colpo, dono votivo al sotterraneo / Zeus, salvator de’ morti. Ed egli rece / l’anima, procombendo, mentre sgorga / dalla ferita e fuori irrompe un’onda / di sangue tenebroso, che colpisce, / simile a spruzzo di rugiada, me / ilare come il germe, quando sbocciano / i frutti, per la vivida letizia / delle gocce dal ciel piovute.”

Una spropositata metafora, che da sola giustifica l’odio di Clitennestra contro Agamennone. Alla fine, non aveva torto Oreste quando ne “Le Coefore” grida alla madre: “Viver con te, assassina di mio padre!” (Eschilo, Le Coefore, p. 139).



Apparso su La Sicilia del 28 maggio.
Zino Pecoraro